La recensione: “Tales from the Realm of the Queen of Pentacles”, Suzannne Vega

E’ uscito da poco il disco di Suzanne Vega “Tales from the Realm of the Queen of Pentacles”. Una lunga carriera punteggiata da qualche successo pop, soprattutto “Luka”, ma anche molta musica elegante e dal timbro piuttosto vario.

Lo stesso discorso vale per questo disco, che pesca da ispirazioni varie e nel quale si intuisce la ricerca, forse addirittura l’ossessione, del cambio di atmosfera. Si parte con “Crack in the Wall”, e quando Suzanne parla di “Wall” il pensiero corre alla sua “Marlene on the Wall” dell’85, uno dei suoi episodi più brillanti. La citazione non è del tutto involontaria: qui si procede con un pezzo morbido e flessuoso, che si porge con l’eleganza abituale ma anche con lavori elettrici di sfondo, prima di aprirsi quasi a marcetta, in un pezzo che nasce acustico e muore elettrico.

La svelta “Fool’s Complaint” segue, con una chitarra acustica ritmata a dettare il passo. Sorprendente come la voce sia rimasta più o meno la stessa nel corso degli anni, come conferma anche “I never wear White”. La cantautrice canta questo morbido blues marcato con un’aggressività elegante che non stonerebbe sulle labbra di una Shirley Manson. Anche se picchia un po’, è sempre evidente il senso del limite, anche temporale: nessun pezzo del disco sfora molto oltre i quattro minuti, un’attitudine quasi punk.

“Portrait of Knight of Wands” ci porta nel cuore della tematica del disco, tra tarocchi e pentacoli: è un pezzo sommesso, in cui la voce di Suzanne si muove tra le sillabe in un modo non dissimile da quello della lontana “Fancy Poultry”. Poi, inaspettata, entra l’elettronica, ma è solo un passaggio.

“Don’t Uncork what you can’t contain”, ci segnala “Il Fatto quotidiano”, contiene un sample (però, ragazzi, è “di” 50 Cent, non “dei” 50 Cent…): canzone moderatamente festosa, con echi arabeggianti, forse un po’ inutile. “Jacob and the Angel” invece assomiglia a un poossibile cuore del disco, tra battiti di mani e arpeggi di sfondo, dall’andamento non rettilineo e con un finale quasi psichedelico.

Arriva poi “SIlver Bridge”, tra i pezzi più pop, di buon passo, con la chitarra a dettare l’andamento ma anche con una buona mescolanza di strumenti. “Song of the Stoic” e “Laying of Hands/Stoic 2” sono due facce della stessa medaglia, figlie di un atteggiamento blues con inserti in seta. Il ritmo è la costante del disco: mai forzato e mai smorto, accompagnato dalla raffinatezza dell’arrangiamento, che però è costante in tutta la carriera della ragazza di Santa Monica.

Si va a chiudere con “Horizon (There is a road)”, in cui la ricerca di variazioni arriva a includere anche il suono di tromba. Un disco che rifugge la noia, che convincerà soltanto i già convinti, ma che conferma che le qualità di Suzanne Vega sono sempre lì, intatte e intoccabili. Niente di travolgente e niente di esageratamente innovativo, per carità. Ma del resto, a una che si chiama come una canzone di Leonard Cohen si può chiedere poesia, non bombe a mano.