Recensione: Domenico Imperato, “Postura libera”
Vincitore del Premio De André 2014, Domenico Imperato arriva all’esordio su disco: il titolo dell’album è Postura libera. E mai come in questo caso “arriva” è la voce verbale corretta: nato nei pressi di Bari, cresciuto a Pescara, ha presto deciso che l’Adriatico è un po’ troppo stretto, così si è spostato prima a Lisbona e poi in Brasile.
Indizi dei suoi passaggi si ritrovano in un disco gentile e animato, con tratti da cantautore ma anche suoni di svariate provenienze, figlio di quello che è stato definito un “tropicalismo mediterraneo“, che geograficamente può avere poco senso, ma che in musica e nella vita di una persona possono avere un significato molto pregnante.
Domenico Imperato traccia per traccia
Si parte danzando, con la movimentata ma gentile Gira, che si muove su sonorità acustiche e crea immagini festose benché insinuate in un rapporto, narrato dal testo, dettato più dal desiderio che dal possesso. Si balla anche con Frutta tropicale, ma le latitudini cominciano a cambiare e le influenze a manifestarsi: il ritmo non è strettamente brasiliano, ma in senso più largo latino.
Molto delicata Riposa, che senza essere malinconica tiene i toni molto moderati e si dedica alle sfumature. Muscoli ai remi accoglie il pianoforte tra le proprie sonorità, mentre le ritmiche gettano un’occhiata al jazz e ancora al Sudamerica. Arriva la title track Postura Libera, che con gli archi sottolinea movimenti agili su ritmi lenti, senza alcuna forzatura.
Si passa al portoghese con Lua Nova, elegante e leggermente malinconica. Più notturna Sud, che si stende sui tasti bianchi e neri con la forza di immagini ben definite. L’Aquila, dedicata all’omonima città che fatica a riprendersi dal terremoto, utilizza la tecnica della concatenazione (quella della Fiera dell’Est di Branduardi, per capirsi) legando insieme microimmagini che costituiranno un arazzo molto colorato.
Si cambia continente con Madre Mare (concetto che ritorna nei testi del disco), che sulle note del contrabbasso disegna panorami salmastri e lontani. Si chiude con Yoruba Nago, strumentale poetico con pianoforte e archi.
Ottima la prova di Domenico Imperato, che mette in evidenza ottime qualità, sia dal punto di vista musicale sia per la narrazione. Le esperienze “global” hanno lasciato tracce potenti, ma senza cancellare o risucchiare la sensibilità individuale del cantautore.
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