Recensione: “Primo Tempo”, Didie Caria
Esce il 25 settembre 2015, per l’etichetta valdostana MeatBeat Records Primo Tempo, il nuovo disco di Didie Caria: il cantante torinese da anni si alterna tra musica e teatro e oggi pubblica un album prodotto tramite un’efficace campagna di crowdfunding.
Prodotto, mixato e registrato da Neda nello studio della MeatBeat Records, Primo Tempo è un album che contiene nove canzoni (otto tracce e un extended dell’ultima traccia La more). I brani sono composti principalmente attraverso l’utilizzo di loopstation in una performance in cui la voce è protagonista al centro di un ambiente sonoro minimale.
«Primo Tempo è un album che nasce sulle assi di legno del palco di un teatro. Durante prove infinite, notti in piedi, e la scrittura di tre spettacoli teatrali, in un arco di quattro anni, nasce finalmente il primo album che mi rappresenta completamente. Erano anni ormai che non incidevo più un mio disco. Credevo di dovermi dividere tra le mie due grandi passioni: la musica da una parte e il teatro dall’altra e non sapevo scegliere. Poi l’idea, il dubbio, forse musica e teatro possono incontrarsi, forse non mi devo più dividere!»
Didie Caria traccia per traccia
Dopo i due minuti strumentali di introduzione all’album, con le morbide evoluzioni di Antigone e la luna, che lascia spazio a Tutti i segni di te, cantato quasi a cappella nell’introduzione e tutte le caratteristiche di una canzone soul-pop, tranne le sonorità, che arrivano in un secondo tempo, che portano in ambito trip hop/trip pop, insomma da quelle parti lì.
Non sono bravo si muove, in modo sinuoso, attorno agli stessi percorsi, tra minimalismo iniziale e aperture d’archi nella seconda parte, con un impatto che cresce gradualmente. Si cambia con The prince, che ha un beat quasi dance e una chitarra acustica ad aggiungere qualche sfumatura, anche se qui si ragiona in termini schiettamente pop.
La città visibile torna ad abbassare i toni e si presenta in abiti acustici che si trasmutano poi in elettronica volutamente smaccata. Cosae si costruisce su piccoli arpeggi, mentre Fall in stars torna a cantare in inglese e si disegna come una piccola canzone basata su voce e ukelele.
La more, primo singolo, affronta le questioni amorose con uno spirito piuttosto scanzonato, differente da quello del resto dell’album, pur mantenendo un mix di sonorità più o meno omogeneo con il disco. Nel finale arrivano anche gli archi. L’ultima traccia è una versione “extended” della stessa La more, con molto pianoforte.
Posto che nel cantato si riscontra un eccesso di birignao (ma sarà il problema che ho io con i cantanti di impronta soul), le altre caratteristiche del disco di Didie Caria sono lodevoli. C’è buona creatività, varietà sonora e cura del dettaglio. E anche buone canzoni, il che non è sempre detto.