Recensione: Suz, “Lacework”
Il 9 ottobre uscirà Lacework, terzo e nuovo lavoro di Susanna La Polla, in arte Suz: un disco elegante ma determinato, che costituisce un nuovo mattone nella carriera di una musicista ormai apprezzata anche all’estero.
Susanna La Polla si è fatta conoscere all’inizio degli anni ‘90 come corista e vocalist per il pioniere del ragamuffin italiano Papa Ricky. Insieme al produttore Ezra e al bassista Alessio “Alessiomanna” Argenteri (entrambi già nelle fila della storica band Casino Royale) è poi approdata al trip hop con gli album Shape of Fear and Bravery (2009 – No.Mad Records) e One Is A Crowd (2013 – No.Mad Records).
Suz traccia per traccia
La prima traccia di Lacework è Billie, e presenta subito la novità sonora di questo disco rispetto ai precedenti di Suz, cioè il pianoforte. Il brano ha un passo marcato e consistente, un ritmo alto e anche qualche caratteristica catchy che non guasta l’armonia trip hop del tutto.
Più ricca di effetti ma anche in certo senso più minimalista Pure Rapture, con battito dispari e qualche impressione new wave sparsa nel tracciato. King of Fools ammorbidisce in parte i toni, anche se un finto organo suonato sui bassi regala un po’ di inquietudine al discorso. Il brano si allunga fino a un finale piuttosto etereo. Si vira sull’esoterico con The Abacist, marcata e oscura, con un passo sottolineato ancora una volta dal pianoforte.
Wall of Mist persegue la strada delle percussioni marcate, in un ambiente composto per lo più di elettronica moderata e di percussioni dal sapore etnico. La sensualità etnica si trasferisce anche alla seguente Wide Blue Yonder, che però calca la mano appena di più, regalando sensazioni che possono chiamare in causa i Massive Attack come il pop più “smooth” di qualche anno prima.
Anthemusa si pone in modo piuttosto differente dal resto del disco, con la voce di Suz che si erge statuaria fin dalle prime battute, tra campane tibetane (o tubular bells, o qualcosa di simile), e con la struttura che regala qualche chiaro fra molti scuri.
Ha accenti drammatici il pianoforte che sottolinea le note di Lethe, canzone che non sembra figlia dell’oblio, ma di una certa dose di risentimento. Molto oscura anche Test of Gold, come se verso la fine dell’album le luci tendessero a spegnersi, e i sentimenti negativi prendessero il sopravvento.
Né l’umore migliora con Still Water, che di nuovo fa perno su percussioni che lavorano in molte direzioni diverse e coniuga i contrasti in modo armonicamente interessante.
C’è un consistente discorso ritmico che innerva tutti i pezzi di Lacework e che costruisce la struttura su cui la voce raffinata di Suz ora si adagia ora si eleva. Un disco levigato e di grande eleganza che non fa altro che confermare quanto di buono si era già detto della cantante bolognese.