La recensione: “My Invisible Friend”, My Invisible Friend #TraKs
Avete mai avuto un amico invisibile? E se sì, di che cosa vi facevate voi e di che cosa si faceva lui? Dunque, baggianate a parte, è il caso di presentare My Invisible Friend, trio di Parma la cui musica tende a prendere varianti un tantino lisergiche.
L’ep omonimo che hanno pubblicato da pochi giorni è omonimo e contiene soltanto tre canzoni, ma si tratta di tre brani corposi, ottimo indice di un sound piuttosto ben definito.
Se c’è bisogno di un biglietto da visita che faccia capire subito quali indirizzi prenderà l’ep, ecco O.N.S., che nel primo minuto di canzone presenta un ritmo ipnotico e ripetuto, un feedback di chitarra modulato e molte delle caratteristiche della psichedelia classica. Non che il panorama cambi radicalmente più avanti, anzi anche il cantato del pezzo si muove sull’iterativo e sull’orientale: vengono in mente band come i Kula Shaker, ma più per le scelte filosofiche che per effettive somiglianze sonore.
Con Eyes le prospettive si fanno un po’ più concrete e la direzione che si prende si avvicina di più allo shoegaze di marca My Bloody Valentine, che probabilmente il gruppo emiliano omaggia con quel “My” nel nome della band.
Si chiude con Dear Mary, in cui chitarra e batteria delimitano fin da subito i rispettivi territori di competenza. La traccia appare meno “cosmica” delle precedenti, e sembra influenzata da riverberi di Dark wave ma anche da modalità non ignote ai Velvet Undeground.
A volte tre canzoni sono poche per definire uno stile. Non è questo il caso: tre brani, pur muovendosi su direttrici sonore differenti almeno in parte, mettono in evidenza le qualità del trio, propenso alla fuga verso l’alto. O verso il centro. O dovunque sia, tanto nello spazio non c’è alto o basso.
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