Stanley Kubrick: i capolavori mancati #sottotraccia

Con l’umile ma malcelata ambizione di fornire ai lettori di TRAKS qualcosa di “diverso”, che si possa leggere accanto, insieme, sopra e sotto la musica che accompagna le nostre giornate, questo agosto abbiamo deciso di proporre o riproporre alcuni articoli monografici che abbiamo scritto in passato, per lo più su altre testate, e che non volevamo andassero persi. Letture estive, ma anche per ogni stagione.

Volendo banalizzare, si potrebbe dire che il fil rouge che caratterizza buona parte dei film di Kubrick è la pazzia, da quella violenta di Arancia meccanica a quella ragionata di Full Metal Jacket, dalla surrealtà apocalittica del Dottor Stranamore alla follia cosmica di 2001 Odissea nello spazio. E non è il caso di spiegare che cosa abbia di folle un film come Shining o di morboso Lolita.
Ma sarebbe, appunto, banalizzare. O meglio, sarebbe voler cercare una spiegazione razionale in una carriera costruita per immagini, suggestioni, lampi di colore, idee sbozzate e lasciate in bella vista.

Si possono sempre provare e trovare interpretazioni. Per esempio si può dire, a proposito del lungo finale psichedelico di 2001 che Kubrick, secondo i suoi biografi, credeva che l’uomo si evolverà, nel corso dei millenni, in una sorta di super-essere telepatico e immateriale, capace di varcare i confini del tempo e dello spazio. Ma vorrebbe dire fargli un torto. Fu lui, nel momento in cui si accesero le luci nella sala dopo la prima londinese del film, a dichiarare: “Se qualcuno ha capito qualcosa, significa che ho sbagliato tutto”.

Perfino Arthur Clarke, lo scrittore che con lui collaborò al soggetto del film di fantascienza più ambizioso di tutti i tempi, scrisse il libro a partire dal film, e non viceversa. Come se anche lui avesse dovuto attendere di vederlo per cercare di capirci qualcosa. Quello che affascina di Kubrick, oltre alla maestria assoluta della regia, all’altezza dei concetti espressi, al fatto che non gliene importasse assolutamente nulla del potenziale commerciale dei suoi film, è quel senso di irrisolto, di incomprensibile che alcuni dei suoi film lasciano.

E c’è qualcosa di ancora più irrisolto, per esempio la quantità di progetti che ha lasciato a metà, che ha appena abbozzato, che non è riuscito a portare a termine. Sono davvero tanti, e molti, per un motivo o per l’altro, sono piuttosto interessanti.

Un progetto non abortito, ma sfuggito dalle sue mani è One-Eyed Jacks, in Italia noto come I due volti della vendetta, un western con Marlon Brando scritto, fra gli altri, da Sam Peckinpah. Kubrick aveva appena diretto Kirk Douglas (e un cast notevole) in Spartacus e Brando, che non era convinto di far dirigere il film a Peckinpah, lo aveva approcciato per sapere se fosse interessato. Kubrick era interessato, ma Brando cambiò idea e decise di dirigere in prima persona, scartando in un colpo solo due registi leggendari. Ah, il vecchio Marlon.

Poi c’è anche A.I. Artificial Intelligence. Eppure esiste un film con quel titolo, esatto? Esatto. E ha anche lo stesso soggetto originale di Kubrick. Anzi, è proprio quel film. Solo che l’ha diretto Spielberg. Che ha tante belle qualità, nessuno lo può negare. Ma ecco, come dire, non è Kubrick. Anzi, da un certo punto di vista è l’esatto contrario: è un uomo a cui piace offrire spiegazioni, spesso anche rassicuranti. Be’, almeno dopo Lo squalo.

C’è anche la storia di due incontri piuttosto interessanti che non si sono concretizzati. Uno ci riguarda da vicino: pare che Kubrick fosse interessato a Il pendolo di Foucault di Umberto Eco. Che però rifiutò, insoddisfatto della resa cinematografica de Il nome della Rosa. Pentendosi poi, con calma, nel corso degli anni. Ma bisogna spingersi un po’ più in là nella sfera della fantasia, quando si scopre che i Beatles pensarono di affidare a Kubrick un film tratto da Il signore degli anelli di Tolkien! Anche in questo caso fu lo scrittore a rifiutare, poco convinto non tanto dal regista, quanto dal coinvolgimento dei Beatles.

Nel carnet dei film mai girati ci sono un paio di progetti di fantascienza, un film sull’Olocausto intitolato Aryan Papers e una monumentale biografia di Napoleone. Dopo 2001, Kubrick si mise a lavorare sul film dedicato all’imperatore. Vide tutti i lungometraggi che erano già stati girati sul soggetto, e non gliene piacque nessuno. Lesse tutti i libri, fece i sopralluoghi, decise anche di girare le scene di battaglia in Romania, con il supporto dell’esercito locale, pianificando di usare qualcosa come 40.000 comparse.
Jack Nicholson e Audrey Hepburn avrebbero dovuto far parte del cast. Ma poi il flop del film Waterloo di Sergej Bondarchuk, prodotto da Dino De Laurentiis, fece raffreddare e poi naufragare il progetto. Del resto, se chiami un film Waterloo, non ti puoi aspettare un trionfo. Spielberg provò a girare anche questo soggetto di Kubrick nel 2013, ma c’è un limite a tutto. Ora ci ha riprovato Ridley Scott e vedremo se a lui andrà meglio.

Che cosa affascinava Kubrick della storia del piccolo còrso diventato l’uomo più importante del suo secolo (e non solo)? Forse quello che affascina tutti: il genio, le capacità tattiche, l’ambivalenza del messaggio politico, prima repubblicano e poi imperiale, la spinta modernizzatrice per l’Europa e al contempo la devastazione portata con la guerra. Come ne avrebbe parlato? Molte delle sue ricerche sul campo confluirono poi in Barry Lyndon, perciò un’idea pratica di come avrebbe girato il film ce l’abbiamo. È probabile che non avrebbe espresso giudizi ma che si sarebbe limitato a raccontare. A fotografare. Forse a dipingere.

Kubrick era uno scacchista, un appassionato di baseball, un batterista jazz e naturalmente un fotografo, il che influì sul suo occhio, sulla cura maniacale del dettaglio, sullo studio delle luci. Ma forse anche sul taglio della regia: un fotografo può essere un pittore mancato, in fondo. E i suoi film sono stati soprattutto affreschi michelangioleschi, senza stacchi di senso e senza salti logici, almeno non secondo la “sua” logica.

Il filosofo e professore italiano Elio Franzini ha incentrato una delle sue riflessioni più celebri sul wit, parola inglese che si traduce spesso come spirito, soprattutto nel senso del “motto di spirito”. Quella capacità che consente di saltare i passaggi, di farsi beffe delle ambiguità del linguaggio e di arrivare direttamente a segno. Filosofi come Kant e Locke hanno utilizzato il wit (o Witz, in tedesco) come il legame tra l’immaginazione produttiva e la conoscenza.

È la capacità di cogliere quel “non so che”, ciò che sfugge, ciò che non si riesce a spiegare compiutamente, ciò che rende bello il bello. Qualcosa che si può intuire andando oltre gli ostacoli mentali, ma che non si può tradurre in parole. Ma che si può intuire, magari ridendo, anche se non capisci bene di che cosa ridi. Peter Sellers a cavallo della bomba. Jack Nicholson e la sua smorfia mentre chiama Wendy. I soldati che marciano alla fine di Full Metal Jacket cantando “Topolin, Topolin”.

La vita e la carriera di Kubrick si possono appoggiare a un concetto come questo: ha inseguito per sempre il proprio wit, il proprio non so che, ma quando è arrivato così vicino da poterlo toccare ha scelto di lasciarlo dov’era, e di mostrarlo agli altri.