Stef Silib: streaming, intervista e recensione
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stef silib

Stefano Siliberti, in arte Stef Silib, ha dovuto viaggiare per scoprire la parte migliore della propria creatività. Durante la sua permanenza inglese hanno preso corpo le canzoni di When the Rain Goes Away, ultimo disco che contiene “Intimist folk rock with punk rock aptitude”, come racconta lui stesso nella sua pagina Facebook. Lo abbiamo intervistato.

Puoi raccontare la tua storia fin qui?

Era fine 2011, suonavo e cantavo in un gruppo di Monza, facevamo un po’ alternative rock e un po’ di più del rumore fine a se stesso. Alla fine il batterista decise di lasciarci perchè pareva avrebbe dovuto fare carriera con un gruppo indipendente italiano. Non ci restava che continuare a suonare in qualche modo e allora decidemmo di formare una cover band dei Foo Fighters.

Dopo un anno circa avevo ricaricato completamente le batterie e acquisito un po’ di esperienza live e a un certo punto coinvolsi il mio amico Lorenzo Nocerino con il quale iniziammo ad arrangiare in acustico delle mie canzoni, inizialmente con il nome “Freedom District”. La veste acustica mi calzava benissimo, così, quando mi resi conto che la cosa interessava più a me che a entrambi decisi di andare avanti da solo.

A primavera 2013 preparai delle canzoni da registrare in uno studio casalingo di un mio conoscente in California, ma non riuscii mai ad andare a trovarlo. Così, a inizio 2014 mi ritrovai ad aprire serate di altri, poche aspettative e pochi fronzoli, solo chitarra, voce e un mix di belle serate con successi inaspettati e altre con vuoti di pubblico.

Come nascono le canzoni e le storie che racconti in “When the Rain Goes Away”?

Sono nate nel periodo in cui smisi di suonare, fra fine 2014 e metà 2015, mi trasferii in Inghilterra e non riuscii a fare altro che lavorare, provando ad adattarmi alla nuova vita. Fu un periodo bello ma allo stesso tempo difficile; le canzoni di questo disco nacquero con la voglia di descrivere quello che avevo visto per le strade della città in cui vivevo e la vita parallela che stavo vivendo dentro di me, fatta di dubbi e tanta rabbia perché avevo vissuto il ritorno a casa come un fallimento. I miei amici mi prendono in giro perché dicono che non riesco a non nominare Los Angeles e Londra per due frasi di fila.

Quali sono state le difficoltà maggiori che hai incontrato nel realizzare il disco, se ci sono state?

Eccome se ce ne sono state. Registrare un disco di canzoni proprie è decisamente più facile che dover eseguire qualcosa altrui, ma quando si sceglie di essere indipendenti bisogna fare il doppio del lavoro. Intendo dire: su questo disco ho cantato e suonato la chitarra in tutti i brani, in altri ho suonato il basso e in uno l’ukulele.

Mi rendo conto che quando scegli di avere sessioni serrate nel weekend dopo una settimana di lavoro è parecchio stancante e questo poi si ripercuote sull’esecuzione e sulla buona riuscita dei brani. Nonostante Andrea sia un ottimo ingegnere del suono, devo dire che quando si va in uno studio si ha bisogno di qualcuno che creda veramente in te e nella tua musica e interagisca a un livello superiore rispetto a quanto siamo riusciti a fare noi.

Comunque, avevo queste canzoni in testa da molto tempo e non vedevo proprio l’ora di realizzarle e sovvertire l’opinione di recensioni tipo “fa solo grunge”. Probabilmente a qualcuno del settore ha dato fastidio la mia scelta di rimanere indipendente, oppure la capacità e il dono di scrivere canzoni che altri “musicisti” che si professano tali purtroppo non hanno.

Come nasce “Colorado River Valley”?

Lower Colorado River Valley è il nome di una regione prettamente desertica fra l’Arizona e la California, un posto che ho attraversato in macchina durante un viaggio e del quale mi sono innamorato. Ho scritto la canzone nel periodo in cui, verso la fine del 2015, alla televisione parlavano in continuazione degli attentati a sfondo religioso che da qualche tempo purtroppo subiamo in Europa, e quasi mai una parola di quello che gli Stati Uniti da anni stanno facendo in Iraq o in Afghanistan.

L’immagine che ci hanno dato di questa faccenda, come di tante altre, la ritengo distorta. Comunque, in questo clima teso mettevo in dubbio il ruolo comunicativo dei media e mi chiedevo quanto sarebbe utile a volte farsi un proprio pensiero, isolarsi, appunto, usando l’immagine del perdersi nel deserto. E’ una canzone per la pace.

Puoi raccontare la strumentazione principale che hai utilizzato per suonare in questo disco?

Abbiamo iniziato registrando la batteria di Luca Petraroli, che mi ha dato una grossa mano nella produzione di queste canzoni. Poi siamo passati alle chitarre acustiche, facendo generalmente due tracce a canzone. Ho usato una Maton SR60, una chitarra australiana per cui vado matto.

C’è qualcosa di chitarra elettrica qua e la per il disco, e una canzone con un ukulele hawaiano, di cui parlavo prima. Dopo le chitarra abbiamo registrato i bassi, inserito delle tastiere che mi aveva fatto un mio caro amico, Alessandro Pinneri, e l’ultimo giorno ci siamo dedicati alle voci con il violino in “My Own Private Paradise” suonato da Barbara Luna.

Puoi descrivere i tuoi concerti?

I miei concerti, mi piace che siano diversi l’uno dall’altro e che cambi sempre la scaletta delle canzoni. E’ un modo per provare a rinnovarsi e fare qualcosa di diverso ogni volta. Mi è piaciuto molto suonare fuori da Monza e Milano, trovo che ogni volta si crei un feeling diverso con il pubblico che non conosci ed è uno stimolo in più anche per chi suona.

La maggior parte dei miei concerti l’ho fatta suonando la chitarra e cantando, senza altri musicisti di supporto se non ospiti, il che è molto facile da gestire sopratutto quando chi suona con te ha chiaramente un lavoro che gli da da vivere. Per diverse serate, sopratutto negli Arci della zona, ho suonato insieme al mio amico Matt Confusion, in un set che ci permetteva di alternare le nostre canzoni, presentandole in modo simpatico e bizzaro.

Il pubblico vuole almeno sentire chi sei se non può capire quello che dici se canti in inglese. Al momento sto formando un gruppo definitivo che mi possa seguire nei prossimi concerti, suonerò il 25 febbraio all’Hibu On Tap di Concorezzo, una birreria che passa in rotazione la mia musica. Questo posto è una chicca per gli amanti di birra e musica. Con la crisi attuale dei locali, trovo che gli “house concert” possano prendere piede anche qui in Italia.

Chi è o chi sono gli artisti indipendenti italiani che stimi di più in questo momento e perché?

Vediamo, innanzitutto credo che la scena indipendente italiana come la conosciamo noi sia parecchio macchiata di mainstream. Apprezzo il Pan del Diavolo e i primi Il Teatro degli Orrori, che ho visto dal vivo. Voglio nominare Matt Confusion, che avete recensito qualche giorno fa, e che credo meriti un bacino d’utenza maggiore rispetto a quella che ora ha. Questo ragazzo registra completamente tutto a casa sua e nel frattempo fa il programmatore. Chapeau.

Puoi indicare tre brani, italiani o stranieri, che ti hanno influenzato particolarmente?

Direi stranieri. Ho ascoltato musica che veniva principalmente da Regno Unito e Stati Uniti/Canada. Devo dire che quando ero piccolo mio zio mi diede una compilation “rock qualcosa” e mi colpì molto Roadhouse Blues dei Doors. Per me che ascoltavo i Blink 182 e il punk californiano anni 90 era una benedizione.

Attualmente sto ascoltando molto Elliott Smith e ho scoperto che Miss misery è nella colonna sonora di Good will hunting. Avevo amato quel film guardandolo quando era uscito e non mi ero mai reso troppo conto della colonna sonora. Negli anni invece ho iniziato a sviluppare un amore per le colonne sonore e il ruolo della canzone nel film. In fondo il cinema è la mia grossa passione e se mi manca ancora una scelta direi tutta la colonna sonora de Il buono il brutto e il cattivo di Morricone. Un giorno vorrei poter scrivere e comporre solo colonne sonore.

Stef Silib traccia per traccia

stef silibIl disco si apre con In a Storm, medio rock con influssi post grunge che introduce alle sonorità del lavoro. Si passa a un mood più cantautorale con Colorado River Valley, che alza il livello di intensità con qualche contributo del violino. Up from the trees ritorna a influenze grunge, ma le utilizza con fantasia, imponendo qualche cambio di ritmo e mettendo in evidenza voce e chitarra.

Si abbassano i toni nell’apertura di Morning Blues, che poi però si apre a umori più allegri e solari. Ritmi alti e qualche idea folk-country alla base di Wedding. Dopo l’intermezzo di Kingfisher si approda a un pezzo come My Own Private Paradise, che dopo l’intro intima riprende a correre e a picchiare un po’, ma si concede anche pause riflessive prolungate.

Valle dei sospiri (cantata, anzi recitata in inglese, a dispetto del titolo) raggiunge ulteriori picchi di intensità, grazie a un’attenta tessitura della chitarra. Si chiude con Pacific, voce e ukulele a concludere l’album in modo calmo ma appassionato.

Le canzoni di Stef Silib hanno spirito ed energia, in un disco che si muove bene e che può contare su ottime idee di base.

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