Urizen è il nuovo ep di Sunbourne Rd, cinque anni dopo l’esordio intimista a tinte seventies di April a cui ha fatto seguito la pubblicazione di una serie di singoli.
Ci raccontate la storia dei Sunbourne Rd e anche l’origine del nome della band?
(Alex, autore dei brani) Ho cominciato a scrivere, a comporre intorno ai 14 anni. Qui a Casale Monferrato non c’era questa grande ‘scena’ rock-pop, diciamo così. Ti parlo della metà degli anni ’90. Le realtà non mancavano, ma noi facevamo qualcosa di decisamente diverso. Nirvana, Pearl Jam, non appartenevano alle nostre coordinate. Come avrai certamente notato, ho un debole per i Fab Four. John Lennon è stato il mio idolo adolescenziale, non Kurt Cobain. Volevo essere John, non Kurt.
Quando le prime esperienze di vita ci hanno divisi, io ho continuato a fare musica da solo. Un paio di progetti discografici, sconfinamenti nell’elettro-pop… dopo mi sono fermato un po’, pur continuando a scrivere in forma privata. Soltanto in seguito, ho sentito la necessità di ricostruirmi una voce, una strada, uno spazio. Così sono nati Sunbourne Rd e il primo EP ‘April’, insieme.
Ho chiesto a un paio di amici di aiutarmi nell’impresa (semplicemente perché non sono in grado di suonare tutto io!), ma è stato tutto molto facile. E di nuovo, piacevole. Non per niente, è l’unica esperienza in cui mi sono messo davanti a tutto e a tutti, rivendicando il ruolo di producer, cosa che non vorrei più replicare, perchè non è proprio il mio mestiere. Infatti ‘April’ è forse il disco che più assomiglia al sottoscritto, se ragioni in termini di sound, piu’ che di contenuto. Nel senso che sono realmente io senza sovrastrutture.
Quel lavoro lo definirei come una personale rielaborazione di atmosfere seventies, ricreate da qualcuno che non li ha mai davvero vissuti, ma giusto immaginati – essendo nato nel 1978 – ed è un album biografico, per come è scritto. Né prima, né dopo, ho proposto testi così saldamente diaristici, in cui tutto è piano e perfettamente comprensibile ad una prima, rapida lettura: ero come un bravo bimbo che torna a casa e si confessa a mamma e papà, “davvero, l’ho fatto in buona fede, dovete credermi, sono un tipo a posto!”.
Di solito lo stile con cui affrontiamo la scrittura di una canzone è molto frammentato e frammentario; le parole non devono descrivere mondi, cerchiamo di trasmettere sensazioni prima di tutto a livello di suono, quindi lavorando piuttosto sulla superficie. Fatto questo, le interpretazioni sono un moltiplicarsi di possibilità, se facciamo bene quello che ci siamo proposti e se abbiamo disseminato correttamente indizi e suggestioni.
Per quel che riguarda ‘Sunbourne Rd’: è un suono inventato, arrivato chissà da dove in in una mattina di agosto… mi stava davanti agli occhi come se lo potessi leggere, con il suo font da ‘Route 66’ e tutto il resto… lo vedevo in bicromia, tutto rosso e con decorazioni nere e oro. Eppure SR esiste, si trova a Aigburth, un sobborgo di Liverpool. Soltanto, l’ho scoperto a cose fatte…
“Urizen” è un concetto, anzi un personaggio, che citate da William Blake. Mi raccontate come si legano Blake, la massoneria, il Grande Architetto con la vostra musica?
Credo che la purezza, l’innocenza nel rapporto con l’arte e la vita, siano condizioni irrinunciabili. Io per esempio sono autodidatta, ma mi sono sempre rifiutato di modificare questa condizione attraverso un’educazione, perchè ad un certo punto ho avvertito il reale pericolo di intaccare, invalidare il mio gusto creativo, che da bambino sentivo in me già come un talento, innato e particolare.
Blake è tra i poeti che mi è parso quasi di toccare, con le letture dei 13 anni. A quell’età mi accostavo a Poe, Baudelaire, Verlaine, Mallarmé; e Blake, con la sua ‘The Tyger’…: “Quale mano o occhio immortale può aver composto la tua agghiacciante simmetria”. WOW. E’ come ‘King Kong’ nella storia del cinema! Quel un punto di equilibrio di cui non puoi più fare a meno, una volta che lo hai scoperto. Sai, queste sono le cose che lasciano un segno.
Così, proprio recentemente mi è capitato di sfogliare (una vita dopo) ‘Songs of Innocence and Experience’ e da lì ci è venuta l’ispirazione per un disco che rappresentasse le lacerazioni come punto di inizio, un percorso in cui la musica salva, rigenera, comprende (nel senso di ‘include’), fa tacere il mondo e le sue contraddizioni. L’Urizen’ di Blake è la repressione che agisce sull’uomo, attraverso convenzioni, forzature, piccoli e grandi inganni quotidiani.
Pare che il vecchio Willy fosse un disperato, come noi. Lo siamo tutti in fondo. Cercava un modo per levarsi sulla vacuità della folla festante. Kierkegaard ha previsto che l’umanità finirà così: un comico esce sul palco gridando che le quinte stanno andando a fuoco, ma tutti ridono credendo a uno scherzo e finiscono per morire bruciati. Noi invece dovremmo trovare dei motivi per ardere di passione, un fuoco che non consumi, ma che accresca la percezione delle cose.
Voi stessi definite intimista il vostro esordio con “April”, mentre qui le tracce hanno colori più variegati: che cosa vi ha portato a questa evoluzione?
Quando approcciamo qualcosa in un determinato modo, passata l’infatuazione iniziale, subentra la noia. Allora ti senti spinto ad illuminare il tuo piccolo universo da angolazioni progressivamente differenti. In una storia a fumetti di Alan Moore del 1986, Mister Mxyzptlk, uno dei più affascinanti avversari di Superman, racconta di essere diventato male puro essenzialmente per noia… prendi questo mio esempio come un’iperbole… duemila anni di inerzia, seguiti da duemila anni di santità, seguiti da duemila anni di malvagità.
Il passaggio da una condizione all’altra era sempre innescato da un banale stato di noia, la quale peraltro andrebbe coltivata di più per i suoi risvolti creativi. Personalmente, sento forte la tentazione continua di riscrivere il mio passato, perciò – a conclusione di un progetto – cerco subito di individuare un altro obiettivo, per il timore di demolire qualcosa di appena fatto. Perché sono consapevole che, se ne avessi il tempo e – soprattutto – l’occasione, rifarei tutto, ancora e ancora! Però ho un alter ego che ci mette la toppa.
La forza creativa che sta dietro all’attuale suono di Sunbourne Rd, tolto il sottoscritto, è Davide Ghione. Produttore e collaboratore di lunga data. Lui trova sempre nuovi modi per far suonare un vecchio come me in modo nuovo, mettiamola così. E ha il potere di incatenarmi in fondo all’oceano quando me ne esco con frasi stimolanti ma anomale, a suo dire, del tipo: “Per i prossimi duemila anni non sarò altro che malvagio!”
Ma, a parte tutto, April doveva fare i conti con un io molto presente e debordante, per via di quella pausa autoimposta. Questo ha inevitabilmente tolto qualcosa alla complessiva varietà espressiva. Nelle registrazioni casalinghe che di solito realizzo c’è sempre qualcosa che poi, arrivato in studio, fatalmente si perde. Un traguardo che mi piacerebbe raggiungere è quello di realizzare, come prodotto finito, dei demo ‘potenziati’, tanto onesti quanto imperfetti, il che ovviamente va contro le logiche consolidate della discografia.
Allora, proviamo a fare una specie di contaminazione delle due cose, per mantenere un’anima al nostro lavoro senza allo steso tempo produrre un suicidio commerciale. Sta tutto lì, in un auspicabile equilibrio. April con i suoi chiaroscuri, è comunque un album sereno. Urizen è più deformato ed inclinato, quasi un April allo specchio. O almeno, io la vedo così, essendo l’autore. Ma potrei sbagliarmi. E comunque, abbiamo fatto un sabba con Verlaine, Debussy, Doors e Fleetwood Mac, quando ci ricapita più!
Il brano centrale, sempre per citare le vostre parole, è ‘Alice in Between Dreams’: come nasce?
Perché non ti abbiamo davvero ancora parlato di Lewis Carroll, vero. Realisticamente è un topos obbligato per chi intraprende quel tipo di discorso. ‘Alice’ finisce per apparire, prima o poi. E può farlo nei modi più imprevedibili. Mi aveva tanto colpito allo stomaco la storia di Czesɫawa Kwoka, facilmente reperibile in rete. Quattordicenne deportata ad Auschwitz, doveva essere fotografata per gli archivi del campo.
Czesɫawa non capiva la lingua del Kapo’ (una donna), che per metterla in posa la picchiò duramente con un bastone sul viso, spaccandole un labbro. Brasse, un prigioniero incaricato di fotografarla, testimoniò il particolare della bimba, umiliata, sofferente, incapace di intendere cosa le stessero facendo, che prima dello scatto si asciugava sangue e lacrime. Il mio insignificante atto di pietà (non saprei in quale altro modo chiamarlo) è stato quello di ‘prenderla’ e portarla via, congelandola in una canzone; ho creato per lei una fuga possibile, in un mondo immaginifico di cui lei potesse essere sovrana, con il potere di dare a se stessa la felicità eterna, accettandone al contempo il rovescio della medaglia: l’assoluta solitudine.
In origine, il frammento che avevo scritto durava una manciata di secondi (30, o 35 secondi circa), in chiave acustica, una cosa tipo Can You Take Me Back? sul White Album. Avevo intenzione di farne un cappello per Random Harvest. Ma poi si è evoluto in un brano autonomo. Nel testo, c’è un frammento di una ballata di Richard Monckton Milnes. Ed è un tipico ‘canto dell’innocenza’, per voler ritornare al discorso su Blake; le immagini che si susseguono suggeriscono l’infinito dominio che i bambini hanno sulla natura e la capacità di vedere l’invisibile, quella stessa ‘magia’ di cui parla Frances Hodgson Burnett nel suo ‘Giardino Segreto’.
Quando parliamo di Lewis Carroll, invece, non possiamo sapere come sarebbe stata la psichedelia inglese senza di lui. Né potrei figurarmi una ‘Lucy’ dei Beatles, senza quel “a boat on a river”. Noi però abbiamo voluto affrontare la cosa da un punto di vista leggermente diverso, con meno teatro dell’assurdo e più impressionismo. In un certo senso abbiamo traslato nel pop le teorie dei colori formulate da Michel Chevreul, preferendo non miscelare sul posto, ma lasciando all’orecchio il compito di ricostruire, interpretare il risultato.
Si è scelto, per esempio, di inserire chitarre che fluttuano sopra il brano e di anticipare l’ingresso del sample del ‘Preludio al Pomeriggio di un Fauno’ di Debussy, in chiusura, con un arazzo ritmico particolarmente efficace, che il nostro batterista Riccardo Marchese ha ottenuto sovraincidendo tre tracce di batteria e percussioni piuttosto articolate ed in dialogo tra loro.
Mi sembra di indovinare nei Beatles (Harrison soprattutto) come forte fonte di ispirazione. Ne volete citare altre?
Sì, io infatti prima ti parlavo di Lennon. Ma la verità è che spesso l’accostamento è con George Harrison. Ne ho avuto un primo assaggio quando un nostro brano, A Joke in the Can è stato per la prima volta trasmesso da una radio indipendente londinese. I due DJ, nello spendere due parole sul pezzo, hanno riconosciuto qualcosa di Harrison. Questo mi ha positivamente stupito, è un onore immenso.
In aggiunta, posso dirti che siamo qui grazie a Jeff Lynne, Tom Petty, Brian Wilson, Ringo Starr, Ray Davies, Scott Walker (ho un bisogno fisiologico di ascoltare una volta alla settimana Rhymes of Goodbye) Poi tra gli artisti che amiamo ci sono Weezer, Billy Corgan, The Strokes, Pixies… ovviamente scherzavo, su Ringo.
Per ora viaggiate a ep: avete all’orizzonte un album? E nel caso, quando?
Siamo al secondo ep, tra i due abbiamo pubblicato 10 singoli, nel giro di un anno e mezzo. La fase singles mi è servita per spingermi ai limiti dei territori che avevo iniziato ad esplorare con ‘April’, per tentare nuove soluzioni… e, perché no?, capire che musica non vorremmo finire a fare. Non penso di aver mai voluto toccare la perfezione nei miei lavori; né potrei, quantomeno come cantante, perchè di fatto non mi considero per nulla un cantante: sono un autore che, incidentalmente, canta le sue canzoni.
A inizio carriera ho seriamente cercato per 3 anni qualcuno che interpretasse i miei pezzi. Poi, non avendolo trovato mi sono arrangiato e oggi non potrei davvero comporre una canzone e poi affidarla a qualcun altro, non saprei come fare, poiché sono diventato estremamente geloso del mio materiale. Insomma, ho fatto le nozze coi ficchi secchi! Però mi piace, ma ripeto, non ho le capacità per fare qualcosa di perfetto. Ora la tecnologia, con i passi avanti che già ha fatto, può consentirti davvero di fare tutto e di più.
E’ una bella tentazione… ma è il discorso, che non ci interessa. Per contro, vorremmo riabituare il pubblico ad ascoltare e cogliere la bellezza dell’incompiuto, la voce che si spezza in quel punto preciso, l’intonazione magari non sempre precisa, ma umana e calda, il suono vivo, palpitante. Tutto questo, senza dover rinuciare alle possibilità offerte a noi musicisti dalla tecnica moderna.
Posso anche fare un brano ispirato alle splendide tessiture di un Nigel Godrich; qui lo abbiamo fatto, lo puoi sentire su Random Harvest. Eppure è ancora puro “Sunbourne Rd”. Quello che manca al pop di oggi è il concetto di legacy, di incorporamento. Credo che bisogna cercare di mediare tra la necessità di scrivere cose nuove e il proporle a un pubblico che dev’essere riabituato a una musica ormai perduta. Per concludere: forse faremo un album, se solo fossimo in grado di registrarlo in appena tre settimane, per poterlo mettere fuori senza la spiacevole sensazione di stare maneggiando qualcosa di già sorpassato dalle nostre idee più recenti…
Sunbourne Rd traccia per traccia
Si apre con My Bridges, un brano aperto ed evidentemente rock, con chitarre senza compromessi e anche un po’ di muscolarità.
Ecco poi Alice In Beetwens Dreams, per ammissione della band il brano centrale dell’ep: qui il clima è più sognante e anche un po’ beatlesiano, con giri di chitarra semplici e qualche nuvoletta sulla quale ci si posa.
Parecchia energia invece si avverte in Like a Renaissance, che torna a circondarsi di elettricità, in un brano estremamente dinamico.
Ma l’alternanza prosegue: Random Harvest ammorbidisce i toni e si ammanta di una certa malinconia, con il pianoforte sullo sfondo, ma anche un po’ di elettricità ad alzare la tensione.
Si torna a idee molto beatlesiane con la traccia finale By Any Means, By You, un mid-tempo con un drumming evidente ma modi in definitiva gentili.
Ottime le qualità messe in mostra dai Sunbourne Rd, che pur mettendo sul tavolo le (nobili) influenze da cui pescano sono abbastanza abili da rendere del tutto personale la loro interpretazione. Ne esce un ep di qualità, di ascolto più che gradevole e foriero di ulteriori evoluzioni.