Non è passata proprio sotto silenzio da noi, ma non ha ricevuto nemmeno un’enorme esposizione mediatica The Playlist, miniserie pubblicata il 13 ottobre scorso da Netflix. Il docu-drama svedese in sei puntate racconta la storia e lo sviluppo di Spotify, basandosi sul libro Spotify Untold, scritto da Sven Carlsson e Jonas Leijonhufvud.
La serie, molto nordeuropea e quindi senza eccessivi fronzoli, ma apprezzabile e ben girata, cerca di esporre sia la storia del colosso dello streaming, dagli inizi difficili e pionieristici alla, comunque problematica, superpotenza di oggi (e oltre), con buone dosi di fiction ma rimanendo piuttosto ancorata ai fatti reali.
E lo fa con un buon espediente narrativo, cioè quello di mostrare i fatti da sei punti di vista diversi: quello di Daniel Ek, il fondatore e propulsore di Spotify; poi il discografico svedese, l’avvocato che “inventa” Spotify Premium a partire da una collana di perline, il programmatore idealista, l’investitore “alternativo” e piuttosto folle, e infine l’artista che pubblica dischi, riscuote successo, suona in locali, ma deve fare un altro lavoro perché il talento e lo streaming portano soltanto bruscolini e non pagano le bollette.
L’equilibrio iniziale è probabilmente tra le virtù migliori della serie, anche se, in particolare la puntata finale, lascia trasparire chiaramente che cosa gli autori pensino veramente di ciò che è diventata Spotify, di ciò che è diventato Daniel Ek e di quello che anche questo dissidio tra denaro ed etica abbia finito per privilegiare il primo a danno della seconda.
Lo sforzo principale della serie è quello di non appiattire troppo i personaggi e in particolare Ek: sarebbe facile dipingerlo come un ex idealista finito come tagliagole, squalo e miliardario. Intendiamoci: lo è, come si capisce bene quando cerca di comprare l’Arsenal per un paio di miliardi di sterline mentre distribuisce spiccioli agli artisti. O quando fa fuori Martin Lorentzon e Andreas Ehn, gli altri due fondatori del progetto, per ragioni esclusivamente business-oriented.
Ma è un miliardario di ultima generazione, una persona complessa e tormentata, tutt’altro che priva di dubbi e problemi, un po’ sulla falsariga dello Zuckerberg di The Social Network, film del 2010 che è probabilmente servito da pattern per la serie.
In particolare Ek, che pure è consapevole di essere la persona più influente del mondo musicale contemporaneo, rifiuta la nozione di unico villain del settore. Anzi, dal suo punto di vista quella con gli artisti è una “partnership” e un modo di aiutarli a realizzare i propri sogni.
In un passaggio particolarmente significativo, Ek accusa il discografico Universal Sundin di aver tratto tutti i benefici dalla vendita dei diritti dei musicisti, lasciando che la colpa delle sperequazioni del mercato ricada unicamente su Spotify.
Lo scontro peraltro ribalta i ruoli rispetto agli inizi, quando la nascente Spotify aveva il software e il know how per creare “il miglior lettore musicale al mondo” ma non aveva il controllo dei diritti delle canzoni. E quando, all’uscita di un locale, Ek aveva approcciato Sundin proponendogli di distribuire la musica gratis, era finita a insulti.
Si viveva allora ai tempi di Pirate Bay, che aveva ereditato la “missione” di Napster per distribuire in modo gratuito ma, appunto piratesco e illegale, miliardi di contenuti, dalle canzoni ai film a quasi tutto il resto, in nome di una condivisione molto idealistica e disordinata.
Le case discografiche all’epoca guardavano in faccia lo spettro del fallimento, licenziavano i dipendenti a decine, perdevano miliardi su miliardi ed erano avvitate in una lotta senza quartiere, ma anche senza senso, per difendere l’esistente, senza guardare in faccia né la realtà né il futuro. A salvarle sarà proprio Spotify, che recupera loro almeno una parte del denaro disperso, rende legale lo streaming e ne tutela il lavoro. Anche se…
Gli artisti, l’anello debole
Anche se è evidente che il prezzo qualcuno lo debba pagare: non lo pagano le case discografiche, che tornano a incassare. Non lo paga Spotify, che nella versione gratuita riceve i pagamenti della pubblicità; mentre in quella, ormai largamente prevalente, Premium, ottiene gli abbonamenti, facendo palesemente incazzare gli idealisti della prima ora, ma permettendo agli investitori di quotarsi in Borsa e di diventare sempre più ricchi e dominanti in campo musicale e di finanza.
In parte il prezzo lo pagano gli ascoltatori, è chiaro. Ma è altrettanto chiaro che abbonamenti che costano un centinaio di euro l’anno non possono essere paragonati a quello che l’industria musicale richiedeva, per esempio vent’anni fa, quando ti metteva in mano un cd e in cambio pretendeva venti euro o più.
Quindi alla fine l’anello debole della catena sono diventati gli artisti: non tanto e non solo le Taylor Swift del caso, che pur vivendo largamente di concerti e merchandising vario sollevano eccezioni e minacciano di lasciare la piattaforma di origine scandinava se non si arriva ad accordi più lucrativi. Ma soprattutto le migliaia di artisti “piccoli” (o anche non tanto piccoli), magari dotati di talento sufficiente a renderli professionisti ben pagati se fossero stati al picco della creatività nel 1995, ma che oggi faticano a mettere insieme pranzo e cena e sono obbligati a fare un altro lavoro per vivere.
The Playlist spiega la condizione degli artisti attraverso la figura di Bobbi T, ipotetica compagna di scuola di Daniel Ek ma anche artista soul di grande talento, che fin dagli inizi diffida delle idee di Spotify ma riceve rassicurazioni che saranno puntualmente tradite. Tanto che anche lei, come tantissimi, finisce per trovarsi un altro lavoro, cantare nei bar e nei pub che le dimezzano il cachet quando non “porta gente” e la ricompensano in “visibilità”. Solo che poi la visibilità si traduce in quattro monetine quando la gente, Ek compreso, ascolta la sua musica su Spotify.
E anche lei, pur esitante, finirà per protestare di fronte alle vetrate del palazzone di Spotify, cercando una giusta compensazione per la propria musica. Fino a un finale futuribile che non spoileriamo, ma che contiene indicazioni molto possibili su come potrebbe proseguire la disfida tra Spotify e gli artisti in un avvenire non molto lontano.
La serie è Svezia-centrica, ma alla fine non descrive una situazione lontanissima da quella italiana, dove gli artisti fanno a pugni per suonare in locali che li sottopagano e dove il miraggio di fare della musica il proprio mestiere è un lusso riservato a pochissimi, anche, se non soprattutto, perché tutti possono accedere a tutta la musica a prezzi davvero ridicoli.
Rimangono aperte alcune domande. Perché se è ovvio che Spotify ha “salvato” in qualche modo l’industria musicale (che fosse giusto od opportuno salvarla, impendendo ad altri modelli e paradigmi di emergere, è tutto da vedere, ma non è questa la sede per questo tipo di discorso) è altrettanto ovvio che poi si è impadronita del sistema, prosperando, permettendo a Ek e ai suoi soci di costruire ville sempre più enormi, di festeggiare il proprio matrimonio da star sul lago di Como invitando Bruno Mars e Mark Zuckerberg, e di diventare sempre più vittime di gigantismo, facendo però orecchie da mercante alle voci sofferenti degli artisti.
“Sei tu il sistema”, dice Bobbi a Daniel, verso la fine della serie. “Monopolio“, “cartello“, “controllo” e “potere” sono le parole più pronunciate per descrivere la parte più recente dello sviluppo di Spotify, con un’affermazione drastica come “lo streaming sarà sempre sfruttamento”.
Tanti piccoli Daniel Ek
E tuttavia proprio questa frase lascia aperta una domanda: siamo sicuri di non essere anche noi quantomeno complici dei servizi di streaming? Siamo sicuri di non essere tutti dei piccoli Daniel Ek, chiusi nelle nostre camerette? Perché è bene non dimenticare come è iniziato tutto, e soprattutto perché: qualcuno ha scoperto un sistema per mettere tutta la musica del mondo gratis su internet, e a noi questa cosa è piaciuta tantissimo. Notti intere, per citare gli 883, ad aspettare che la discografia degli Ac/Dc o degli Afterhours o di Cristina D’Avena sgocciolasse, bit dopo bit, nei nostri allora poco capienti hard disk.
Oggi siamo tutti dalla parte dei poveri artisti sfruttati, è ovvio. Ma se ci chiedessero ancora venti euro per ascoltare il loro disco probabilmente la nostra convinzione ideologica vacillerebbe pericolosamente, a meno di non essere dei fan sfegatatissimi oppure dei collezionisti di vinili. Che si sa, sono bestie strane.
Il mondo di oggi, social e no, tende a polarizzare e a operare una dicotomia brutale: noi siamo i buoni, voi siete i cattivi, tertium non datur. Ma le zone grigie esistono, e va ribadito come sia merito di The Playlist, che sicuramente a quelli di Spotify sarà piaciuta pochissimo, il fatto di metterle in evidenza e di far riflettere su come si sia arrivati a certe risultanze.
Probabilmente la serie si sarebbe potuta e dovuta concludere con lo show di Bobbi T che si esibisce in un locale dove l’ha raggiunta Daniel Ek per un ulteriore quanto vano tentativo di vedere la situazione con occhi non troppo distanti. Dopo un breve e tumultuoso colloquio, Bobbi canta, mentre gli avventori si fanno gli affari loro, chiacchierando ad alta voce. Poi subentra il “romanzo” e la voce della ragazza conquista l’audience; finisce tutto in un applauso fragoroso. La realtà, come sa chi sia stato anche in un solo pub in cui qualcuno stesse cantando, di solito è un po’ meno romantica di così. Gli avventori quasi sempre continuano a farsi gli affari loro e a rumoreggiare bevendo birra, anche se sul palco c’è Janis Joplin reincarnata.
Ma questa è una serie e anche Daniel si commuove fino alle lacrime mentre ascolta Bobbi cantare con voce appassionata una canzone che dice che “domani è il mio turno”, che toccherà anche a lei un po’ di fortuna. Quando e come sarà di nuovo il turno degli artisti, emergenti, emersi, indipendenti, delle major, di ogni genere, colore e forma, non è dato sapere. Ma forse arriverà prima se, al netto delle bollette, della pandemia, delle crisi e di tutto ciò di cui sono piene le nostre vite, smetteremo di fare i piccoli Daniel Ek e dedicheremo alla musica tutta l’attenzione che merita.
P.S.: Sotto al titolo si può ascoltare una versione di Hymn of Ugarit, che secondo alcune fonti è la canzone più antica del mondo, ricostruita a partire da tavolette di terracotta risalenti al XIV secolo prima di Cristo, che rappresenta anche il primo brano caricato su Spotify.