The Winstons, “Smith”: la recensione

Esce giusto oggi Smith, il secondo disco di The Winstons, la bizzarra ma efficacissima formazione impegnata a fingere di essere immersa fino al collo nei suoni dei Sixties, e così convinta da convincere tutti gli ascoltatori.

“Winston Smith” è il nome del protagonista di 1984. Ed è anche un gioco di pronuncia sul Mito dei The Winstons: “The Winston’s Myth”. Ma questi son solo inutili dettagli. Il metodo per fare le cose è quello di non pensare troppo. La libertà d’azione è l’unico che fa stare bene, e il rapporto umano è l’unica preziosa scuola compositiva. Alcuni definiscono questa attitudine Rock’nRoll. Altri semplicemente “vita”.

E ancora: “Ci siamo trovati dopo alcune session londinesi in quello che fu l’home studio di Mike Oldfield nel Buckinghamshire e altri studi sparsi per il nord Italia con talmente tanto materiale da ipotizzare un disco doppio. Dopo un lungo tentativo di organizzazione abbiamo ascoltato tutto e abbiamo optato per un lavoro unico che rappresentasse al meglio la band hic et nunc. Solo ora che il disco è finito, missato dal super Tommaso Colliva in stato di grazia, abbiamo capito cosa abbiamo in mano e cosa stiamo per consegnare alla gente”. 

The Winstons traccia per traccia

Dopo l’introduzione, già piuttosto psichedelica, di Mokumokuren, ecco Ghost Town: i fantasmi in città arrivano tutti dagli anni Sessanta/Settanta, come previsto, e suonano anche l’armonica a bocca.

Si rallenta e si affonda in un territorio che sta a metà tra i Beatles e tutto quel sottobosco, sempre psichedelico, dei Sixties in cui ti volti da una parte e vedi Bowie, ti volti dall’altra e spuntano i Beach Boys, ti giri ed ecco il prog, in Around the Boat.

Più acidella Tamarind Smile/Apple Pie, che elettrifica gli organi come neanche Jon Lord, ma con un atteggiamento vocale e una ritmica che fa pensare ai Pink Floyd barrettiani.

A Man Happier Than You, con Mick Harvey, ha sostanzialmente tre esistenze distinte: una prima parte molto morbida e acustica, una seconda che rivela evidenti parentele con I am the Walrus, e una coda finale quasi ieratica e ascensionale.

Not Dosh for Parking Lot è un curioso mix tra blues e progressive, peraltro della durata di 2 minuti e 38, quindi anche piuttosto sintetico.

Si parte nel marasma cittadino con The Blue Traffic Light (e del resto se accendi una luce blu nel semaforo, qualche problema lo riscontri per forza). Il brano è meno scanzonato dei precedenti, anzi è il primo del disco a prendersi sul serio.

Il pianoforte e i cori aprono Blind, declinazione (melo)drammatica e un po’ bowieiana. Esplorazioni all’oscuro quelle di Impotence, con Richard Sinclair, in un brano che poi prende vigore.

Rapida e sparsa Soon Everyday, che prevede cambi di ritmo e anche di umore, risultando in una sorta di proteica mini-suite.

Ed eccola lì, la canzone in greco che aspettavamo tutti: Sintagma, sorta di divertissement comunque preso con serietà e capace di sfociare in un dialogo basso-chitarra di tutto rispetto.

Finale incendiario con Rocket Belt: la presenza di Nic Chester incita il trio a mettere in piedi un pezzo tra beat e rock’n’roll, che passa in rassegna Beatles, Stones, Who e compagnia, picchiando con forza e facendo ballare tutti.

Se nel primo disco The Winstons avevano messo sul tavolo tutte le proprie influenze e le voglie vintage, qui prendono una decisione e una direzione netta: se psichedelia dev’essere, che psichedelia sia.

Non shoegaze, non vie di mezzo: facciamo che si fa la spola tra la Londra del ’65 e la San Francisco del ’67 e da lì si parte. Dove si arriva? Quando si arriva? Si arriva? Boh. Il disco sicuramente approda e raggiunge, senza sforzo. Perché il bello di questi ragazzi è quello: non fanno “come se”, non imitano, non si sforzano di. Si mettono in pista e ballano, e tutto è così naturale che ti chiedi se non ne puoi avere ancora.

Genere: psichedelia

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