Tom Waits: anniversari, ristampe, personaggi veri #sottotraccia

C’è questo ventiquattrenne che sta pubblicando il proprio disco d’esordio e che scrive una ballata in cui immagina un proprio alter ego settantenne o giù di lì che telefona alla propria amata di un tempo, che non sente da molti anni, per inseguire memorie del passato, cuori spezzati dal tempo e scoprire che lei si è rifatta una vita con un marito, dei figli e che insomma lui non è proprio sempre in cima ai suoi pensieri.

Sarebbe un po’ meno curioso se succedesse il contrario, se un songwriter settantenne scrivesse una canzone su un sé di ventiquattro anni e rincorresse le vestigia del proprio passato. Ma invece è proprio questo che fece Tom Waits in Martha, ballata ricca di blues, anche in senso etimologico, inserita in Closing Time, disco di debutto, pubblicato nel 1973. Tra l’altro il pezzo fu anche rifatto da Tim Buckley, l’anno successivo, a sottolinearne l’originalità.

Non è proprio soltanto per questo che il vecchio ragazzo di Pomona, in California, è una sorta di mosca bianca nel cantautorato mondiale e un esempio che non ha mai smesso di esercitare la propria influenza anche sui nostri cantautori (vengono in mente Paolo Conte e Vinicio Capossela, tra i molti che ne hanno in qualche modo subìto l’influenza).

C’è uno spunto di attualità per parlare di Waits in questo periodo, e cioè il fatto che lui e la moglie Kathleen Brennan hanno approfittato del quarantennale di un disco cardine della discografica waitsiana per rimasterizzare e ripubblicare tutti i dischi usciti nel decennio 1983-1993.

Gli album di Waits pubblicati per Island Records tra il 1983 e il 1993 saranno ristampati in vinile e cd il prossimo autunno: si parla appunto di Swordfishtrombones (1983), Rain Dogs (1985) e del musical teatrale che completa la trilogia, Franks Wild Years (1987), daranno il via alla serie oggi, 1° settembre, esattamente 40 anni dopo la pubblicazione di Swordfishtrombones. Si proseguirà poi con Bone Machine (1992) e The Black Rider (1993) a cui collaborarono Robert Wilson e William S. Burroughs.

Ma torniamo per un attimo a Closing Time, di cui peraltro è appena trascorso un ragguardevole anniversario (come chi scrive, ha festeggiato il proprio cinquantesimo compleanno a marzo 2023). Chiaramente Waits qui sta ancora cercando la propria strada: tanto per cominciare la voce è ancora giovane, non arrochita dal fumo, dall’alcol, dalla vita, come invece non sarà difficile percepire nei dischi a seguire.

Però la penna è già capace di scrivere in modo sapiente, tipo quando parla della sua auto (Ol’ 55), oppure quando percorre tutto un brano per dire che spera di non innamorarsi, salvo poi scoprire che non ci riesce, come in I Hope I don’t fall in love with you.

Tom non è “soltanto” un cantautore: è anche un attore, anche se curiosamente è stato “utilizzato” dai registi soprattutto come caratterista, spesso per interpretare personaggi un tantino fuori di testa, come il mercuriale e cialtrone innamorato di America Oggi di Altman, o il pazzo sacerdote di Dracula nell’omonima pellicola di Coppola, o ancora l’evaso di Daunbailò, dove recitava accanto a Roberto Benigni. E che facesse il pazzo in 7 psicopatici di Martin McDonagh, be’, sorprende fino a un certo punto. Spesso sono del resto un po’ gli stessi personaggi, sconfitti, senza speranza, ma a volte terribilmente divertenti, che troviamo come protagonisti delle sue canzoni.

Nient’altro che lacrime hollywoodiane

C’è un’altra canzone di Waits che mi ha sempre colpito, fin da quando l’ho ascoltata per la prima volta. Si tratta di Black Wings, contenuta in Bone Machine; non è certo uno dei suoi pezzi migliori, né più famosi né scritti meglio. Ma mi ha sempre colpito il fascino oscuro di quello che è a tutti gli effetti un racconto noir, una leggenda scura, per certi versi quasi un fumetto in musica.

La canzone racconta di questo personaggio che “cavalca attraverso i tuoi sogni” quando “la luna è un pugnale freddo inciso” nel cielo. Questo cavaliere della notte, che nasconde sotto il cappotto le “ali nere” del titolo, si dice che abbia ucciso un uomo con una corda di chitarra, ma anche che abbia salvato un bambino che annegava. Alcuni dicono di temerlo, altri di ammirarlo, ma chi l’ha incontrato nega di conoscerlo. Un tizio che sembra uscito dalla penna di Neil Gaiman, insomma, che pochi versi di canzone riescono a materializzare di fronte ai nostri occhi.

Ed è proprio questo l’aggettivo, “materiale”, che mi verrebbe da accostare alla musica di Tom Waits. Proprio dal più volte citato Swordfishtrombones, il cantautore californiano incomincia a servire in tavola quel curioso mix di sensazioni sonore, un po’ Brecht, un po’ teatro dell’assurdo, un po’ circo e un po’ baraccone della fiera, che lo renderà unico. Il tutto tenuto insieme da questa voce che raschia il fondo del barile, che viaggia sempre rasoterra, che suona così “materiale”.

Forse per questo non mi riesce difficile credere alla realtà dei suoi personaggi, per quanto assurdi e a volte semimitologici, come in Black Wings: perché se uno li canta con una voce del genere, che sa di alcol, polvere, delusione e vita, devono essere veri per forza.

Anche in Swordfishtrombone, canzone che dà il titolo al disco e che è dedicata al curioso “Trombonepescespada”, si tratteggia un personaggio che “tornò a casa dalla guerra con un casino in testa”: un tizio che va avanti ad anfetamine e mezza pinta di Ballantine al giorno, che suona un banjo “scacciamosche” e che piange “nient’altro che lacrime hollywoodiane”. Sono sempre personaggi letterari quelli che escono dalla sua penna e dalla sua voce, di quella letteratura che sta tra Steinbeck e Cormac McCarthy, ma con un quid in più in termini di stramberia.

Del resto, il suo pezzo più famoso rimane probabilmente I don’t wanna grow up, rifatta anche dai Ramones: “Io non voglio crescere”, idea base della sua carriera e della sua vita, durante la quale questo bambinone brutto, sporco e cattivo ha lasciato un segno in tutti coloro i quali sono stati ad ascoltarlo per più di un minuto.